Dum pendet, rendet. Questo falso brocardo (inventato, sembra, da Piero Calamandrei, che ha voluto rendere in latinorum un vecchio detto toscano) sembra dirci che la durata del processo civile, e dunque la non-velocità, produce una rendita per qualcuno. E questo “qualcuno” sembra debba es-sere l’avvocato, posto che per il giudice il dato potrebbe es-sere indifferente. Forse la massima ha un riflesso di tipo ot-tocentesco, quasi manzoniano: ogni volta che il semplice si recava dal difensore, che gli parlava in modo da non farsi capire, doveva “bussare coi piedi”. O possiamo richiamare, dopo, i film di Alberto Sordi nei quali l’avvocato, prima di entrare in udienza (e ottenerne la condanna), riceve e na-sconde sotto la toga il “fagottello” dell’imputato.
La realtà – almeno quella attuale – è ben diversa. La veloci-tà dei giudizi è un valore a sé stante come indicano le clas-sifiche del Doing Business, in un sistema non più solo na-zionale ove le ragioni dell’economia sembrano sempre più prendere il sopravvento su quelle della giustizia (il punto meriterebbe di essere trattato a parte). Dalla giustizia “giu-sta” degli anni ’80 si è approdati alla giustizia “veloce”, pas-sando per l’affermazione del diritto alla “ragionevole dura-ta”.
Come si può rendere la giustizia civile più veloce?
Paradossalmente, la risposta del nostro recente legislatore è stata nel senso di renderla meno accessibile. In primo grado si sono introdotte, per determinate e non secondarie materie, le condizioni di procedibilità che si sono rivelate improduttivi parcheggi di contenzioso; nelle impugnazioni, si sono moltiplicate le condizioni di ammissibilità, talune stabilite per legge (sia pure con scarsa chiarezza e improprietà di linguaggio, alimentando i dubbi e le confliggenti interpretazioni) talaltre “create” dal giudice stesso (si pensi all’autosufficienza del ricorso per cassazione o alla specificità dei motivi). Ottenere una pronuncia di merito è ora più difficile di un tempo, e soprattutto …serve più tempo. Dall’accesso alla giustizia degli anni ’60 in poi si è passati al respingimento dei contenziosi.
Al raggiungimento dell’obiettivo della velocità è stata ispirata la riforma del giudizio di primo grado (se ne auspicava l’accelerazione sin dal titolo dei d.d.l. governativi della IX Legislatura, ministri della giustizia prima Rognoni e poi Vassalli), e così a partire dalla legge n. 353/1990. Ma il sistema delle preclusioni ha fatto largo uso di concetti inde-terminati (si pensi alle eccezioni rilevabili d’ufficio, o alla modificazione/integrazione della domanda), sui quali la giurisprudenza, dopo trent’anni, si sta ancora interrogando. La vulgata è stata l’ingessamento del giudizio sui contenuti degli atti introduttivi, con una duplice conseguenza negati-va: la tendenziale inattendibilità della rappresentazione della realtà che ha luogo nel processo; la proliferazione dei contenziosi, perché ciò che risulta precluso nel giudizio di primo grado tenderà a proporsi, o riproporsi, in un separato giudizio. E la proliferazione è nemica della velocità, come della certezza.
La velocità è stata perseguita anche con la sommarizzazione dei giudizi, ma il principale strumento di tale nuovo corso – il procedimento sommario di cognizione (artt. 702 bis e ss. c.p.c.) – è stato un grande flop: e, anche qui, sono sorte discussioni interminabili sulla differenza fra cognizione ordinaria e sommaria, alla ricerca del proprium della nuova forma di tutela (cognizione sommaria, decisione non sommaria: un apparente ossimoro).
Quando si decide di correre, ciò avviene sempre col sacrificio dei poteri delle parti: a cominciare dai termini processuali, che spesso sono stati ridotti senza alcun vantaggio per la durata complessiva dei giudizi. Ma chi vede il suo giudizio durare anni nel solo primo grado inizia a chiedersi perplesso come mai abbia dovuto sottostare a preclusioni processuali fin dagli atti introduttivi; perché avrà dovuto correre col rischio di commettere errori irrecuperabili (o difficilmente recuperabili), se poi ha dovuto intrupparsi in una coda informe destinata a durare anni. La velocità non può essere la cifra soltanto di taluni, in quell’actus trium personarum (ma sovente sono molti di più …) che è il processo civile. La realtà fuori del processo si modifica nel tempo in cui il giudizio stancamente si dipana, ma il processo resta sclerotizzato nelle sue rigidità che sembrano ritagliate sulle esigenze di un avvenimento destinato a durare pochi mesi, se non poche settimane. E che invece dura facilmente dei lustri, dopo aver imposto alle parti di affrettarsi per compiere le attività iniziali sotto la minaccia di decadenze e preclusioni. In tal modo, si moltiplicano i casi di ingiustizia della decisione per essere la realtà processuale un fotogramma fermo che tanto più si distacca dalla realtà effettiva in continuo movimento quanto più tempo trascorra tra l’introduzione del giudizio e la pubblicazione della sentenza. Un processo a preclusioni rigide è accettabile se i suoi tempi di definizione siano brevi; ma se così non è, perde qualsiasi significato il sacrificio imposto alle parti che spesso ot-tengono, dopo anni e anni di attesa, decisioni che più non si adattano alle mutate condizioni della loro realtà.L’idea della velocità richiama alla mente l’utilizzo di un mezzo meccanico, di un’autovettura. Quella di cui disponiamo è però un’utilitaria che non funziona, e non è certo colpa di chi è chiamato soltanto a utilizzarla. Non si cammina con una macchina rotta. È la macchina a dover essere riparata. Gli interventi del legislatore, che si sono susseguiti dal 1990 in poi, dimostrano soltanto che le regole del processo – possiamo forse definirle il software – non creano la velocità e l’efficienza se l’hardware non funziona, o semplicemente non c’è. La lentezza insopportabile della giustizia civile – che è il più vistoso, ma non certo l’unico problema del settore – dipende principalmente dall’esiguo numero dei magistrati addetti, dallo squilibrio esistente tra i diversi uffici giudiziari, dalla carenza di risorse.
Il dibattitto sulla crisi della giustizia civile si articola in rivoli che spesso confliggono tra loro: l’adeguamento degli organici, le concezioni aziendalistiche del servizio giustizia, il limite degli investimenti finanziari, i modelli organizzativi come plausibile alternativa alle riforme e agli adegua-menti delle risorse (c.d. progetto Strasburgo, concepito dal dipartimento dell’organizzazione giudiziaria del Ministero della giustizia negli anni 2014-2015), il reclutamento e la formazione permanente dei magistrati, la magistratura onoraria (il vero “bubbone” pronto a esplodere per disvelare l’effettiva nudità del Re: vale a dire la cronica scopertura degli organici), le ricorrenti e vacue lamentele sull’eccessivo numero degli avvocati. Nel dibattito, l’attenzione è spesso sviata dal tema dell’inadeguatezza delle risorse a quello di una narrazione denigratoria e fuorviante: i magistrati sono «fannulloni strapagati», le risorse esistenti sono sufficienti e vanno sol-tanto meglio organizzate, i magistrati onorari – con buona pace dei princìpi costituzionali – possono fare tutto quello che i magistrati professionali non riescono a smaltire, gli avvocati – che non sono più gli intellettuali e paternalistici notabili ottocenteschi – alimentano il contenzioso per me-re ragioni di sopravvivenza, dovendo rinunciare alla funzione di filtro delle liti più infondate e temerarie al solo scopo di campare. Un mondo non di professionisti ma di poveri cialtroni, in cui anche l’Università gioca la sua parte, ovviamente in negativo, sfornando a ciclo continuo una massa di laureati insufficientemente preparati che va a inevitabilmente alimentare la parte più stracciona e inattendibile dell’avvocatura.
“Solitude”