di Alfredo Palomba
La costa adriatica si stende come un filo a piombo da Trieste almeno fino a Brindisi, se si escludono la trascurabile cresta del Conero e la grande patata del Gargano. Da Comacchio a Marina di Ravenna, poi Lido di Classe, Milano Marittima, Cervia, Cesenatico, Gatteo a Mare, Bellaria, Igea Marina, Viserba, Rimini, Riccione, Misano Adriatico, Cattolica, Gabicce Monte. La Riviera romagnola. Una distesa senza soluzione di continuità di enormi spiagge di sabbia ultrafine, mare sotto il livello del mare, lidi imbarazzanti per quanto sono attrezzati, campi di racchettoni e beach volley, «Ah di’!», «Diopo’!», «Cio’!», tette, culi, abbronzature argilla, sparuti patàca sopravvissuti a Maurizio Zanfanti: un unicum tempo-spazio-spirituale cristallizzato dalle cartoline fin dagli anni Cinquanta e da Jerry Calà fin dagli Ottanta.
Vivo a Cesena per la maggior parte dell’anno, a venti minuti dalla costa. Qui, con poche eccezioni, mi bagno le terga e tento di assumere un colorito che mi permetta non dico di spiccare, ma perlomeno di confondermi tra la folla perennemente vacanziera dei romagnoli ed evitare i «Come mai così pallido?», «Tu niente mare, eh?», «Sembri stanco», conditi da quei sorrisi immondi, leonardeschi, da quel misto di scherno e pietà che mi accompagna da quando ho memoria e credo di condividere con gli altri topi da biblioteca che come me hanno la sfortuna di essere nati con una carnagione olivastra e poca attitudine a prendere il sole in terrazza.
Tempo possibile e tempo impossibile