Qual è la tua paura più grande?
Di fronte a questa domanda la prima sensazione che ho provato è stata la confusione. Viviamo anestetizzati e imbottiti di rimedi che allontanano da noi il dolore, la malattia e la morte. Concetti indicibili e, ancor più, invivibili. Abbiamo indossato armature come il successo, il potere, l’eterna giovinezza allontanando le nostre fragilità, o meglio rinchiudendole in scomparti inaccessibili della nostra anima. Ma non ci siamo resi conto che quegli scomparti sono tutt’altro che inaccessibili; sono il terreno per la manipolazione della nostra identità, dei nostri desideri, della direzione delle nostre speranze. Veniamo manipolati grazie alla rimozione o alla sollecitazione delle nostre paure che ovviamente continuano ad esistere ma non più in forme concrete, circoscritte, piuttosto come un sentimento pervasivo che ci rende confusi e per l’appunto, manipolabili.
In nome della paura siamo disposti a rinunciare alla speranza e ai sogni; siamo disposti a smettere di farci domande, a circondarci di filo spinato per delimitare il nostro IO così da sentirci sicuri ma inevitabilmente soli.
Ho imparato la concretezza della paura dalle persone disabili con cui lavoro. Lavorare con la disabilità significa innanzitutto lavorare con il corpo, con le sue possibilità o impossibilità. Se ci si allontana da questa dimensione tattile, olfattiva e concreta, ci si allontana dalla possibilità di comprendere a fondo ciò che c’è dentro il corpo: sentimenti, desideri e paure. Se spingo la sedia a rotelle di una persona disabile devo fare i conti con la sua paura di cadere, se mi prendo cura del suo corpo devo saper entrare nella sua intimità e comprendere il pudore e la paura di mostrarsi: tutto passa attraverso il corpo.
In questo momento storico, il corpo è diventato un veicolo pericoloso, una minaccia: improvvisamente gli spazi di comunicazione affidati alle mani, agli abbracci, alle espressioni del volto, allo stare vicini sono stati cancellati. Quando abbiamo ripreso le attività del centro diurno con i ragazzi disabili ci siamo posti immediatamente il problema della paura, dell’ansia e dell’angoscia con cui avremmo dovuto fare i conti. Ci siamo accorti, però, che le paure che avevamo di fronte erano molto più chiare e concrete di quelle che avevamo immaginato, e soprattutto, delle nostre. Nel corso di un lavoro di scrittura creativa abbiamo chiesto quale fosse la loro paura più grande.
Eccone alcune.
Essere dimenticato.
Non poter più accarezzare la mia fidanzata .
Perdere l’amore che senza baci non è più amore.
Paura che niente sarà più come prima.
Paura che mai potremo più essere in tanti nello stesso posto e ridere insieme.
Paura ci sia un buon motivo per non avvicinarsi più a me.
Nessuno dei ragazzi ha indugiato nello scrivere, sono stati diretti e chiari. Hanno espresso la loro paura più grande: la perdita delle relazioni. Lacan diceva: “L’essere umano dipende nel suo essere dal riconoscimento dell’Altro, dal desiderio dell’Altro.” In questo senso perdere le relazioni significa perdere la propria essenza e la propria identità. Allora la frase “Ho paura di essere dimenticato” ci restituisce il senso profondo che le relazioni hanno nella vita: la misura del nostro esistere. Essere dimenticato è come smettere di esistere ancor prima di morire.
Ora mi sembra chiarissimo, ma non lo era. Almeno non lo era per me. Mi è stato molto chiaro quando ho ripreso il contatto con i miei ragazzi. Probabilmente il nostro sentirci connessi e in costante (e apparente) contatto con il mondo ha anestetizzato la nostra paura di isolamento e morte delle relazioni, ci ha dato l’illusione che l’intelligenza emotiva, la corporeità, la comunicazione non verbale, il sudore, il profumo degli altri fossero sostituibili o accessori. E invece quanto è importante ricordare che "l’amore senza baci non è amore, che è difficile affezionarsi senza toccarsi"! Cose semplici, cose concrete. Un balsamo per le nostre anime confuse.