La guerra che Grot ha deciso di disertare è la sua vita appena dopo aver preso il diploma. Si è ritirato per non essere sconfitto. Perché “ritirarsi nei propri sogni è la certezza di un successo duraturo” e “un atto di grandezza d’animo” dice quasi all’inizio del libro. Siamo molto vicini a quanto espresso dal drammaturgo tedesco Heinrich von Kleist in una delle bellissime ma insopportabili - e purtroppo per lei - niente affatto criptate - lettere alla fidanzata Wilhelmine “Soltanto nel mondo, non fuori di esso, è doloroso essere poca cosa.”. Ma siamo anche dalle parti del pensiero esistenziale e politico (che è poi tutto esistenziale) del prolifico autore giapponese Yukio Mishima. Entrambi gli scrittori sceglieranno di ritirarsi dalla vita con un suicidio filosoficamente premeditato: sussurrato quello del romantico tedesco, plateale quello di Mishima, che arriverà a trafiggersi il ventre con una spada, secondo la tradizione samurai del seppuko. Entrambi non se ne andranno da soli, ma con un amico, l’unico possibile, colui o colei che ne condivide la scelta fino in fondo.
Il nostro Grot sceglie invece la solitudine totale come estremo tentativo di salvaguardare i confini del proprio io affinché “non crolli di fronte alla concretezza del reale”. E’ una scelta altrettanto lucida e necessaria.Anche nella parte “in chiaro” il romanzo è pieno di rimandi, di citazioni e di assonanze con altri grandi storie: alcune esplicite (Metropolis di Fritz Lang) altre inevitabili (Kafka tutto, ma in particolare i racconti La tana, La metamorfosi e - ancora - le lettere) altre ancora solo suggerite. Non so se augurare al lettore di accorgersi di tutte, se sia poi così necessario riconoscerle e averle bene chiare in mente per partecipare alla storia così umana del protagonista e dei suoi comprimari, anche adesso che scrivo non so quante me ne sono perse anch’io, quante quelle che ho solo creduto di vedere. Stesso dubbio rispetto ai messaggi cifrati: quanto stare al gioco e provare a decifrarli e quando invece lasciare che restino incomprensibili?
Il problema si pone perché grande parte del romanzo è cifrata e l’altra parte ci viene presentata come chiave per decifrare il resto. Per capirci, se non avete visto Metropolis, i nomi dei protagonisti vi risulteranno strani ma mostruosamente credibili perché lo sono per la voce del narratore, per lui come per voi sono e rimangono solo i nomi dei personaggi di questa storia. Se invece il film lo conoscete, oppure se mandate a memoria certe pagine di Kafka, sapete che un nome non è mai solo un nome (tantomeno un nome composto come Maria Freder o una lettera puntata oppure una voce terrifica che dice “io” dal buco della sua tana) e sapete che è anche metafora di qualcos’altro, che a sua volta sovente è metaforico. Eppure non è indispensabile. Come ogni buon libro è figlio di molte altre opere d’arte che l’hanno preceduto ma è autosufficiente in ogni sua pagina.Date queste premesse c’era il rischio di trovarsi di fronte ad un romanzo a tesi. Per fortuna questo libro è ben lontano dall’essere un libro psicologista, o antropologico e se l’autore si riferisce al ritiro di Grot mutuando l’espressione nipponica “Hikikomori” di disagio sociale, lo fa solo per un attimo, per poi subito tornare a mettere in scena questo equivalente nostrano di eroe del ritiro, poco importa che la scena sia circoscritta alle mura domestiche o peggio alla testa dove frullano i pensieri del protagonista. Laddove ci si poteva aspettare speculazione c’è sempre e solo azione. Anche nelle confessioni che i personaggi fanno (con uno psicologo? con Dio?) non ci sono mai spiegazioni, le interpretazioni sono sempre omesse: è il non detto, insieme ai gesti, a dire (quasi) tutto quello che c’è da dire.
Questo di Mazzanti è soprattutto un romanzo d’amore. Un’educazione sentimentale a tutti gli effetti che prima di giungere al grande passo dell’amore eterno (“io ti amo anche se sei un complotto”) passa per il tradimento degli amori primari (“Perché bisogna trovarsi un’altra madre?”), per l’identificazione con l’altro (“Vorrei imparare ad essere come te. […] Ti va d’insegnarmi a essere Irene?”) fino alla ripetizione quasi alla lettera delle parole ascoltate nell’infanzia (“Mi parla [la madre] di quanto sia la cosa più bella al mondo il mondo là fuori, è una roba imperdibile da quanta roba bella c’è”) alle orecchie dell’oggetto dell’amore (a suo modo) adulto durante il corteggiamento finale. Ma è nella comunicazione l’unico amore possibile, l’unica vita possibile, e il nostro protagonista lo sa fin da subito, ben prima di trovare la donna giusta: “Perché non mi decripti? Perché non impari a capirmi? Io ti giuro che imparerò tutto quello che devo imparare se tu, Giorgia, a tua volta imparerai il mio linguaggio”. Nonostante le moltissime omissioni questo libro è anche, e soprattutto, uno scavo impietoso nei rapporti familiari, tanto doloroso e vero che talvolta si rimpiange che non sia tutto criptato: “Cara mamma [...] Vorrei che tu fossi fiera di me così come sono ma io sono deformato e mi sento sempre deriso dagli altri, ma non è colpa tua, mi dispiace tanto di essere fatto così. Perdonami. Vorrei tanto che tu fossi felice, davvero. Perdonami. Ma per favore, ti prego ti prego lasciami stare […] E se tu pretendi che io parli con te o con l’uomo dei miei incubi, devi riflettere sul fatto che il sistema familiare è identico a quello sociale, per cui se mi ritiro dalla società, io devo, capisci, devo ritirarmi anche dalla famiglia. Se mi mischio ad altre persone, compresa te, sì proprio te, io rovino tutto. Lasciami stare. Ti voglio bene, ma lasciami così.”. Siccome a Kafka e alle sue deformazioni immaginate e a Mishima e alla sua ossessione per il declino dei valori e delle istituzioni stato e famiglia (guarda caso proprio del Giappone sull’orlo del capitalismo) abbiamo già accennato mi piace leggere queste righe come “il sugo” ristretto dell’insegnamento di Collodi e del suo burattino in tema di genitorialità interessata e libertà dei figli di potere essere al mondo solo per se stessi.
Tempo possibile e tempo impossibile