di Eduardo Savarese
Per il debutto di Areopago, propongo un percorso fra tre libri, letti nelle fasi 1 e 2 della pandemia: Canto di D’Arco (SEM) di Antonio Moresco, La riva delle Sirti (L’orma editore) di Julien Gracq e I sogni di Mevlidò (66thand2nd) di Antoine Volodine (consigliatimi e inviatimi dai due amici librai Ciro Marino, per il primo, e Antonello Saiz, per gli altri due).
Tra il dualismo bene/male vita/morte luce/buio che supera continuamente se stesso (Moresco); una civiltà ricca e stanca che desidera solo scomparire (Gracq); la fatica enorme di vivere, morire, rinascere dentro ambienti vasti, inquinati, indistinti (Volodine). Sono scritture produttrici di un profondo travaglio, di un malessere certo, di una beatitudine tragica (in senso specifico: da tragedia greca) che deriva dall’osservazione della verità della condizione umana. La deroga incessante alla percezione ordinaria dello spazio e del tempo colloca le storie in uno sgomento sospeso, trattenuto sui confini del precipizio, della fine annunciata, incombente, che si traduce però nell’ulteriore passaggio all’oltre.
Narrazioni gremite di quantistici orizzonti degli eventi.
.D’Arco è uno sbirro morto, vive nella sterminata città dei morti, è stato ucciso da una banda di sposi-killer e continua da morto ciò che faceva da vivo, lo sbirro, appunto. Nelle tre parti in cui si divide il racconto (intitolate, rispettivamente, “Il male”, “L’amore”, “Le città di confine”), D’Arco attraversa incessantemente, si muove senza requie, si pone domande su domande in una strenua, sfiancante ricerca di verità: è l’uomo degli attraversamenti, che si lascia attraversare, nel suo corpo – martoriato, crivellato, gettato negli eventi e nel vuoto, nel buio, e nella luce -, nella sua morte che torna alla vita e ritorna alla morte, nel suo amore che uccide se stesso e va oltre di sacrificio in sacrificio, nel suo viaggio universale: spostandosi, D’Arco sposta i mondi, trascina con sé – percettore perfetto del mondo quantistico della fisica moderna – quanto illusoriamente sembra uno spazio circostante oggettivo e non è altro che una dimensione dinamica che il soggetto e il protagonista muta a ogni secondo, col suo sguardo, e soprattutto le sue parole. E in questi attraversamenti si perde il confine tra ciò che viene prima e ciò che viene dopo. L’attacco del romanzo è potentissimo: nella desolata, immensa, oscuramente luminescente città dei morti, si eleva un canto, un canto di bambini, di bambini uccisi crudelmente: da quel canto – dalla voce umana, che perpetua il rito della memoria dell’innocenza, come nei Kindertotenlieder di Mahler – inizia il cammino sapienziale dello sbirro:
Era una vocina che si stava alzando da uno dei grattacieli e che lacerava il silenzio.
Me ne stavo fermo, senza riuscire a muovere un passo, impalato.
La vocina continuava a cantare in quell’impressionante silenzio, da sola.
Non lo so perché, ma all’improvviso sono stato scosso da un brivido.
Non riuscivo a respirare (…).
Poi, a poco a poco, forse perché il mio udito si era abituato a cogliere anche il più lieve suono in tutto quell’infinito silenzio e in quell’infinito buio, mi è parso di sentire altre voci levarsi qua e là dall’alto dei grattacieli.
Il giovane e ambizioso Aldo è il protagonista del sontuoso romanzo di Gracq, pubblicato in Francia nei primi anni ’50 e vincitore di un Goncourt non ritirato dall’autore (L’orma editore lo ripropone nella traduzione storica di Mario Bonfantini).
L’antica, opulenta e sonnacchiosa Repubblica di Orsenna detiene territori desertici che sfociano nel mare delle Sirti, e fronteggiano uno Stato nemico, l’esotico Farghestan. Orsenna pare una proiezione metastorica dell’antica Repubblica veneziana, e la sua storia è giunta a un punto morto: essa si trascina, guidata da poteri dalle intenzioni oscuramente incombenti sulle scelte del giovane Aldo. Mandato a svolgere il ruolo sostanziale di osservatore-spia nell’avamposto militare guidato dal vecchio Marino, la volontà di Aldo, dei suoi compagni, della sua amante Vanessa Aldobrandi, della politica sovrana di Orsenna si intrecciano fatalmente per smuovere lo stagno immobile della guerra fredda che oppone da decenni la repubblica al nemico Farghestan.
Per tenersi vivi nello stagno, è necessario drogarsi di immaginazione.
Aldo chiede a Vanessa: “Ma di che droga vuoi parlare?”. E lei, riferendosi tanto al giovane amico e amante, quanto al capitano dell’Ammiragliato, Marino, e ai loro andirivieni dalla fortezza alla città di Maremma, spiega così la morsa dell’inquietudine per una guerra sopita:
“La medesima, Aldo, che tu vai a cercare in quella casamatta dove ci son tante carte. Lui, il capitano, non sa perché torna qui a Maremma; ma io potrei spiegarglielo. Ci viene di continuo perché è una cosa insopportabile il dormir troppo: perché in un sonno troppo pesante ci si rigira nel letto per cercare un posto meno cedevole e molle; e anche lui ha bisogno per vivere di poter vagamente fantasticare che gli equipaggi della flotta dell’Ammiragliato non sono precisamente votati per l’eternità a zappare le patate”.
E lo stagno si smuoverà, quando Aldo prenderà l’iniziativa di guidare una delle imbarcazioni della flotta militare di Orsenna per mari pericolosamente prossimi alla capitale dello Stato nemico: alla provocazione si reagisce con altra, e più grave, provocazione, e comprendiamo che l’esito sarà l’esplosione delle attività e il tramonto sanguinoso di Orsenna.
E’ straordinario pensare all’apparente totale inattualità del romanzo: uscito agli inizi del decennio dell’avvio della ripresa economica europea, e dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma nel mezzo di un nuovo inizio bellico (la guerra fredda), La riva delle Sirti riesce a cogliere la profonda vecchiezza del continente europeo – che fronteggia continenti molto più giovani, forti e selvaggi -, l’illusione della pace, il bisogno di morte, e di morte violenta a causa della deflagrazione di conflitti. Ma è una inattualità apparente, appunto: mai come oggi l’Europa è paragonabile, dopo settant’anni di pace ininterrotta, alla vecchia, cinica e opaca Repubblica di Orsenna. Mai come oggi vi si aggirano uomini ambiziosi che, in nome di una visione di rinnovamento, rischiano di dar tutto alle fiamme. Mai come oggi stazioniamo in un deserto indistinto, abitando fortezze cadenti, e interrogandoci sull’esistenza di una strategia e su suoi eventuali obiettivi.
Un mondo, anzi un universo ostile e in travaglio, malato, inquinato, irrespirabile ospita inospitalmente i passi del protagonista del romanzo di Volodine, Mevlidò. Fondatore del movimento post-esotico, Volodine immerge i giorni di Mevlidò in una specie di placenta spessa e oscura, dove occorre muoversi, forse trascinarsi, con enorme fatica. Così il mondo – segnato da quartieri sconfinati, da residui di città ormai travolte da nuove ere, nuove guerre, e nuove rivoluzioni fallimentari, con nomi di luoghi e persone che fuoriescono dalla crasi di desinenze e cadenze linguistiche le cui identità sono ormai naufragate – è un mondo molto triste, molto doloroso, e zeppo di sterminata solitudine. Ho letto “I sogni di Mevlidò” una volta finito il lockdown ma, poiché dentro di me ancora risuonava la presenza della grande solitudine trascorsa, i passaggi del protagonista mi sono risultati ingigantiti in ogni sua dolorosa cesura dall’amore degli altri.
Mevlidò trapassa di stato in stato, di universo in universo, nelle notti indistinte e insonni di Pollaio Quattro, nei ricordi che si tramutano in sogni, nei sogni che trascorrono in veglie, nelle veglie che segnano le rinascite, o le nuove morti, in una ciclicità che è la nuova eternità non redenta di un mondo inquinato senza compassione ed empatia.
Tuttavia, Mevlidò resta ancorato alla vita attraverso le donne amate, ed è nel ricordo di Verena Becker (uccisa brutalmente) che il suo cammino procede sin dentro le angosce della Bolgia, riuscendo infine a rivederla in un sogno di lei che, forse, non sarà in grado di riconoscerlo o, semplicemente, guardarlo.
Quando Mevlidò deve venire in questo mondo dal suo mondo, sono tre adulti nudi che lo accompagnano a rischio della propria vita.