Le restrizioni cui tutti siamo sottoposti a causa della diffusione del contagio da covid-19 ci obbligano a fermarci, o comunque a rallentare di molto il ritmo delle nostre attività quotidiane. Le case sono diventate un presidio sanitario, se si limita all’osso il numero delle persone estranee al nucleo familiare che si ospitano: si deve stare in casa, uscire il meno possibile ed incontrare il minor numero di persone possibile. La casa: per alcuni, prima della pandemia, solo un rifugio, al quale far ritorno la sera, dopo il lavoro, o, per chi poteva, all’ora di pranzo, per consumare un pasto veloce prima di re-immergersi nel turbinio delle attività quotidiane; per altri, il centro non solo del mondo affettivo, ma anche dell’attività lavorativa. Sì, perché, nella stragrande maggioranza dei casi, per chi fa il giudice la casa non è solo un rifugio o un domicilio affettivo, ma è il luogo dove si svolge la parte più importante dell’attività lavorativa: a casa il giudice studia, si documenta, ricerca con l’ausilio delle banche dati elettroniche i precedenti che servono per risolvere il caso che deve decidere, riflette, coltiva i suoi dubbi, vive i suoi travagli, coltiva i suoi sogni e smaltisce le sue delusioni. Eppure, l’amministrare la giustizia o, come meglio si dovrebbe dire, l’esercizio della giurisdizione non si limita a tutto questo. Le attività appena descritte: lo studio, la ricerca solitaria del precedente, la coltivazione sistematica dei dubbi come metodo per il loro superamento sono solo la parte oscura, invisibile alla collettività, ed anche non misurabile, del lavoro di chi è chiamato a fare (non già “dare”, che come verbo apparrebbe pretenzioso) giustizia. Per la collettività, la giustizia rappresenta più un ideale da perseguire costantemente che un bene da poter conquistare concretamente. Come tutte le aspirazioni umane destinate a non essere mai del tutto appagate, essa vive innanzitutto di simboli: il palazzo di giustizia, la toga, “il banco degli imputati”, il banco del giudice, equidistante rispetto alle postazioni degli avvocati, la sedia munita di microfono sulla quale prende posto il testimone. Non a caso, i cittadini che non hanno mai avuto esperienza di processi tendono a identificare la giustizia con il processo penale, che più si presta a rappresentazioni cinematografiche e televisive.
Il potere conferito agli uomini di discernere il fas dal nefas, il lecito dall’illecito, di attribuire la ragione e il torto con decisioni suscettibili di essere portate ad esecuzione anche contro la volontà di chi le subisce è talmente invasivo da non poter essere rappresentato figurativamente se non facendo ricorso a una divinità pagana: una dea bendata con in una mano la bilancia e nell’altra la spada: l’imparzialità e l’assenza di pregiudizi (benda), l’equilibrio (la bilancia) e la forza di imporsi ai refrattari (la spada). C’è poco da fare: l’esercizio della giurisdizione si nutre di studio, ma vive, nella coscienza collettiva, di apparenza, di simboli, se si vuole anche di simulacri: insomma, di ciò che si vede e che si può vedere. Di più: l’apparenza, intesa nel senso di ciò che è visibile alla comunità, è la vera fonte di legittimazione dell’esercizio della giurisdizione: legittimazione non tanto nel senso giuridico-formale, quanto in senso pregiuridico, antropologico. Quanto conta per la credibilità dell’esercizio della giurisdizione, agli occhi della collettività, l’immagine che il giudice dà di se stesso, come parla, come si comporta? Quanto conta per la credibilità dell’esercizio della giurisdizione il decoro del palazzo di giustizia, dei locali in cui si fa udienza, in cui si ascoltano le parti e si escutono i testimoni? Molto, evidentemente. Per due ragioni.
La prima, di carattere psicologico e prerazionale: l’immagine che il giudice offre di sé e il decoro del contesto nel quale esercita il suo ufficio condizionano indubbiamente l’affidamento che i cittadini ripongono nella serietà e nell’attenzione con cui viene esercitata la giurisdizione.
La seconda, di carattere razionale: i cittadini che entrano, a vario titolo, in contatto con l’esercizio della giurisdizione, percepiscono che la cura che il giudice ha della sua immagine pubblica e il decoro dei locali in cui si esercita la giurisdizione sono la misura dell’importanza che lo Stato-comunità e lo Stato-istituzione attribuiscono alla giustizia.
Certo, la legittimazione pubblica di una funzione non è solo una questione di decoro, anzi.
Il decoro senza contenuti concreti, senza efficienza, verrebbe considerato un blasone da nobili decaduti, quasi un cimelio che incarna la nostalgia di un bel tempo perduto, a volte un privilegio immeritatamente ereditato.
Ebbene sì: l’esercizio della giurisdizione rinviene soprattutto nel modo in cui funziona la fonte della sua legittimazione presso la collettività.
L’efficienza dell’esercizio della giurisdizione, e più in generale dell’amministrazione della giustizia, non risiede tanto nel risultato dell’applicazione del diritto, quanto nel tempo che occorre per giungere a quel risultato.
Se misurare l’oggettiva conformità al diritto di un prodotto definitivo dell’esercizio della giurisdizione (sentenza irrevocabile) è già impresa assai ardua, pressoché impossibile è misurarne la corrispondenza ad un supposto esistente universale senso di giustizia.
Sicché, nella difficoltà di misurare l’esattezza del modo in cui una sentenza definitiva risolve una controversia o sanziona un reato, il tempo che lo Stato, attraverso i suoi giudici e il suo personale amministrativo, impiega per dare risposta definitiva al bisogno di giustizia dei cittadini è l’indicatore prevalente dell’efficienza dell’esercizio della funzione giurisdizionale.
Purtroppo, la potenza della pandemia che stiamo vivendo ha investito in pieno tutte le funzioni pubbliche, mettendo a dura prova, come non era mai accaduto su così vasta scala e con una simile veemenza, tutti i servizi gestiti dallo Stato e dagli altri enti pubblici.
Nel tentativo di arginare l’espansione del virus e i suoi effetti letali sulle fasce più esposte della popolazione, i provvedimenti adottati in forme mai sperimentate finora (i d.p.c.m.), nell’intento di evitare il collasso del servizio sanitario nazionale, hanno pesantemente inciso sull’esercizio di libertà individuali e collettive che eravamo abituati a dare per scontato: l’obbligo di distanziarci ci ha portato al divieto di riunirci, di frequentare luoghi di comunità, di ospitare amici e parenti, perfino di uscire di casa senza la necessità di soddisfare un bisogno “essenziale”.
Le autorità pubbliche hanno pesantemente limitato la frequenza scolastica in presenza, in alcuni territori, come la Campania, sopprimendola completamente.
Tutto il settore pubblico si è fatto trovare largamente impreparato ad affrontare una emergenza simile.
Così, nell’esigenza di potenziare la prima linea di questa guerra, cioè le strutture del sistema sanitario, e di reperire fondi per concedere “ristori” alle attività imprenditoriali più pregiudicate dai provvedimenti di contenimento della pandemia, non ci si è tanto preoccupati di far sì che l’esercizio della giurisdizione e, più in generale, l’amministrazione della giustizia, funzioni primarie in ogni Stato di diritto per assicurare la pace sociale e l’ordinata convivenza, non subissero contraccolpi.
E invece di contraccolpi ve ne sono stati.
Il primo, inevitabile, ha riguardato i tempi di definizione dei procedimenti. Nell’immediatezza dell’adozione dei primi provvedimenti di lockdown, molti processi già calendarizzati sono stati giocoforza rinviati. Le udienze dedicate all’escussione dei testimoni hanno dovuto subire uno sfoltimento e, molto spesso, un rinvio e una riprogrammazione. Il secondo contraccolpo, anch’esso inevitabile, è stato quello del progressivo svuotamento del carattere “comunitario” dell’esercizio della funzione giurisdizionale: quest’ultima, specialmente nel settore civile, è uscita dai tribunali per trasferirsi sugli schermi dei personal computer di giudici ed avvocati; essa ha perso, per ora, i simboli che ne accompagnano da sempre l’esercizio. Se già il novero delle udienze aperte al pubblico era stato ridotto in seguito alle riforme degli anni ’90 del secolo scorso, oggi, in questa fase di emergenza sanitaria, anche la parte in causa rischia di non avere più la possibilità di vedere “in faccia” il giudice chiamato a pronunciarsi sull’azione giudiziaria da essa esercitata o subìta; non può osservarne il contegno, non può apprezzarne il grado di attenzione nell’ascoltare le difese orali svolte dal suo avvocato; insomma: non ha la possibilità di apprezzare tutta una serie di circostanze che condizionano l’affidamento che essa ripone nell’esercizio della funzione giurisdizionale. Se, dunque, prima dell’emergenza epidemiologica, il principale indicatore dell’efficienza dell’esercizio della giurisdizione già ci consegnava una funzione in profonda crisi, il covid-19 rischia di delegittimarla ulteriormente, riducendola alla stregua di una ordinaria funzione amministrativa: infatti, così come nel disbrigo di una “pratica” amministrativa il cittadino può affidarsi ad un intermediario per ottenere un permesso o un’autorizzazione, allo stesso modo e con lo stesso spirito potrebbe affidarsi ad un avvocato per ottenere un risarcimento del danno o un altro tipo di provvedimento giurisdizionale. Né può dirsi che, in questo panorama, gli organi legislativi si siano dati più di tanto carico per affrontare sistematicamente e con una visione prospettica la situazione emergenziale che si è venuta a determinare anche nel campo dell’esercizio della giurisdizione. Manca, infatti, tuttora, un compendio organico di norme processuali “dell’emergenza” valido su tutto il territorio nazionale, e la risoluzione dei problemi dovuti alla necessità di celebrare i processi senza creare “assembramenti” è affidata alla buona volontà, anche “informatica”, di giudici, avvocati e dirigenti degli uffici e alla condivisione di prassi interpretative e operative tra gli operatori.
Tempo possibile e tempo impossibile