di Anna Pappalardo
L’idea del giudice, fin dai primordi della letteratura, è legata all’imparzialità: pensiamo ad Esiodo che nella favola dell’usignolo e lo sparviero denuncia le “storte sentenze“ che nella lite ereditaria con il fratello l’avevano privato dei suoi beni, così dimostrando quanto incide il giudice nella vita di ciascuno, e quanto sia importante e difficile il compito di trarre dal “legno storto di cui è fatto l’uomo” per Kant una sentenza equa.
Sempre nel mondo greco, nell’Orestea , i tribunali che trasformano la vendetta in giustizia devono trovare la loro legittimazione nella divinità di Atena, che istituisce l’areopago, ordinando di spezzare la catena della vendetta per evitare un infinito ritorno al punto insanguinato di partenza.
A loro , Kritai, si chiedeva l’imparzialità, con il vocativo “o Andres dikastoi” , rivolto ai giudici della Polis greca, che erano cittadini chiamati a praticare la dote dell’equità, con un meccanismo di voto tanto semplice quanto insuscettibile di alterazioni.
E proseguendo il volo letterario, persino nei precetti della legge ebraica, in particolare nell’Esodo, si impone al giudice di essere imparziale ricordandogli di non farsi accecare dai doni e di non deflettere dalla giusta sentenza nemmeno per misericordia verso i poveri. Si impone una bilancia in perfetto equilibrio, in cui anche una piuma deve essere allontanata dal piatto perché non alteri la logica distributiva.
A secoli di distanza si può dire che ancora oggi sia questa l’idea del giudice, che si identifica e confonde nel suo principale attributo di Imparzialità, richiesto oltre -e forse di più - che le capacità professionali e culturali. Sembra l’imparzialità la pre -condizione depuratrice dai pre-giudizi, in base alla quale possiamo accettare di delegare le sorti della nostra libertà o di altri diritti, fondamentali e patrimoniali, ad un altro soggetto umano, del quale ci si impegna a rispettare la parola definitiva perché disinteressata.
Tempo possibile e tempo impossibile