L’enciclopedia Treccani definisce così l’indifferenza: Indifferènza s. f. [dal lat. indifferentia, der. di indiffĕrens «indifferente»]. In filosofia, stato tranquillo dell’animo che, di fronte a un oggetto, non prova per esso desiderio né repulsione; o che, di fronte all’esigenza di una decisione volontaria, non propende più per l’uno che per l’altro termine di un’alternativa. Nell’ascetica, è lo stato (necessario al conseguimento della vita perfetta) in cui si rinuncia a ogni scelta finché non si conosca la volontà di Dio per uniformarsi completamente ad essa. Nell’uso com., spesso con tono di biasimo, condizione e comportamento di chi, in determinata circostanza o per abitudine, non mostra interessamento, simpatia, partecipazione affettiva, turbamento.
Nelle ultime settimane ho cercato e poi letto e riletto questa definizione. L’ho fatto perché a fronte di tutto ciò che sta succedendo intorno ho cominciato a sentirmi disinteressata. Di fronte a decisioni importanti, a prese di posizione su come gestire il quotidiano, nella mia vita privata come nel lavoro, non riuscivo a scegliere. All'atto di prendere una decisione tra due alternative, non sceglievo né l'una né l'altra perché le sentivo ininfluenti e incapaci di produrre cambiamenti rispetto alla condizione esistente.
Ho cercato disperatamente di poter interpretare filosoficamente i miei stati d’animo pietrificati, nella speranza di poterli attribuire ad uno stato tranquillo dell’animo, ma questa interpretazione non dava voce a ciò che c’è. Allora ho provato con l’ascetica ma sono davvero troppo imperfetta per ritrovarmi in uno stato di affidamento così profondo (e auspicabile) alla volontà Divina. La verità è che sono una persona comune e dunque devo fare i conti con la mancanza di interessamento, partecipazione affettiva e turbamento.
In questo far luce nelle cantine dell’anima finalmente mi sono sentita turbata. Turbata perché la condivisione del punto di vista dell'altro, delle sue sofferenze e difficoltà, è la molla che ci spinge all'aiuto e l'assenza di questo legame emotivo è sintomo di stati patologici. L'indifferenza, infatti, rompe un meccanismo elementare della coscienza umana: il processo di azione e reazione. Mi sono chiesta perché si fosse interrotto dentro di me questo meccanismo. Ancor di più perché nel mio lavoro a contatto con persone disabili i conti con la sofferenza si fanno quotidianamente, si impara ad elaborare questa sofferenza senza farsi schiacciare, ma, allo stesso tempo, si preserva l’empatia senza la quale è consigliabile cambiare lavoro. Insomma il meccanismo di azione e reazione deve essere sempre attivo. Allora ho pensato che il problema fosse accettare di essere una pila scarica e che forse è arrivato il momento di cambiare lavoro.
Tempo possibile e tempo impossibile