di Maria Lucantonio
Ognuno di noi coltiva un’idea del sé che tenda il più possibile al bene, alla bellezza di forma e contenuto, e nei rapporti sociali cerca di costruire un’immagine che a tale idea corrisponda. Si tratta, credo, di una naturale inclinazione dell’essere umano, una spinta volta a dare il meglio di sé nel rapporto con gli altri, perché nessuno è più vero di quando rimane solo con se stesso e può permettersi di cantare pur essendo stonato, lontano dal palcoscenico della commedia umana. Senza ricorrere all’ abusata metafora della maschera, è innegabile che la nostra immagine pubblica rincorra sempre una versione migliore della nostra natura. Le difficoltà sorgono quando l’immagine pubblica si affeziona a un’idea, e quell’idea, immutata nel tempo, lentamente perde colore, mentre la vita scorre, con proposte sempre nuove, e si fatica a riconoscere quell’idea ormai lontana, forma vuota senza più contenuto, inseguita dall’immagine che si vuole mantenere, forse sbiadita anche quella.
Penso che questo accada anche per l’idea della magistratura, almeno per quella presente nel comune sentire, forse perché, e non dico nulla di originale, l’immagine pubblica della categoria è oggi oltremodo in crisi. Molti che, come me, sono entrati in magistratura negli ultimi anni del ‘900, ricorderanno tribunali diversi popolati da giovani colleghi che si affacciavano in questo ambiente timidi ma pieni di passione, e si tuffavano in un mare di fascicoli, convinti di poter fare tanto e bene, colleghi più esperti che, con empatia e dedizione, insegnavano la pratica del lavoro ma anche il metodo di studio e, forse esagero, ma lo dico per quanto mi riguarda, ci si sentiva così grati di poter svolgere, dopo tanto studio, l’ agognata funzione, che quasi ci si stupiva di essere anche remunerati.
Tempo possibile e tempo impossibile