di Bruno Capponi
Nel 1998, a quarant’anni, vinsi il concorso di professore associato e, tre anni dopo, quello di professore straordinario. Venni subito chiamato – allora bastava una delibera del Consiglio di Facoltà – in un’ambita Università romana.
Sino ad allora, avevo fatto per quasi diciassette anni il magistrato ordinario; ero così arrivato a un’età matura senza pormi il problema di
trasmettere conoscenze. Beninteso: non occorre essere docenti per esserne investiti (non a caso quelli impartiti dalla Suprema Corte vengono spesso chiamati “insegnamenti”); ma, certo, chi sceglie la professione del docente universitario il problema non può non porselo.
Nella condizione di non conoscere ancora molto bene i meccanismi interni dell’università, venni investito come tutti dalle riforme degli ordinamenti didattici (dalla Berlinguer in poi); il mio è sempre stato ricompreso tra gli insegnamenti specialistici (vale a dire dell’ultimo tratto del corso di studi finalizzato a conseguire una laurea magi-strale), e ciononostante è stato semestralizzato. Il corso istituzionale che, nel mio primo incarico di associato, svolgevo da ottobre a giugno è stato concentrato in poco più di tre mesi.
Il problema di trasmettere una conoscenza specialistica, tecnica, generale e di dettaglio me lo pongo ora tutti i giorni. Andando a curiosare nelle bacheche di vari colleghi (le cattedre on line facilitano questa sorta di impropria immissione nell’orizzonte altrui), leggo spesso della libertà di scelta del manuale, perché il vero riferimento della materia è il codice. Il codice di procedura.
Ma la mia esperienza mi dice che non è, o non è più così. A parte il fatto che il codice, fondato sulla dicotomia tra giudice istruttore e collegio, descrive un processo di cognizione che non c’è più, molte regole sono ormai elaborate in modo quasi autonomo dalla giurisprudenza. Che si è presa la sua rivincita: le nostre facoltà, ora di-partimenti, erano titolate appunto alla giurisprudenza, ma in realtà si studiavano le leggi e soprattutto i manuali. Ora, senza conoscere gli orientamenti della giurisprudenza non puoi dire di conoscere davvero la materia. Basti pensare a come la Cassazione, applicando il canone della ragionevole durata, abbia cambiato i connotati a tanti istituti che non rispondono più a quello che di loro continua a dire la lettera del codice. Nel linguaggio corrente, gli studi universitari di “giurisprudenza” erano spesso tradotti in “legge”; ma la legge, ora, di per sé rappresenta soltanto una frazione della materia.
La mia esperienza mi dice anche che chi dichiara di aver studiato sul codice non ha studiato uno dei tanti manuali consigliati ma, nel-la migliore delle ipotesi, uno di quelli commerciali, di origine non accademica. Sinossi, appunti, condensati tratti da internet, sunti. Testi che generalmente contengono errori.
Guardo con interesse a quegli studenti che, come me, puntano al concorso in magistratura. E mi rendo conto che la loro preparazione richiede ora uno studio supplementare, di molti mesi, in una di quel-le scuole specializzate, generalmente gestite da magistrati del Consiglio di Stato, che garantiscono le conoscenze giuste ai fini del superamento delle prove. Alcune di queste scuole si vantano di saper prevedere le tracce scritte, sulle quali organizzano preparazioni mira-te. I giovani percepiscono di dover entrare in un ambiente di chierici soggetto a proprie regole, molto diverse da quelle accademiche: e abbiamo tutti assistito sconcertati alla corruzione del modello, coi dress code e il controllo della vita privata e sentimentale. Ma la corruzione è stata possibile perché quel modello esisteva, e purtroppo continua a esistere.
Io, ai miei tempi, uscii dall’Aula Calasso (dove alla Sapienza si discutevano le lauree) per andarmi a sedere al Palazzo degli esami, superando le prove scritte.
E mi chiedo: le conoscenze che mi avevano trasmesso i professori della Sapienza erano migliori di quelle che ora trasmettiamo ai nostri studenti?
Non sono nella condizione migliore per rispondere; ciò che posso dire è che la massificazione dell’accesso ha condotto alla sommarizzazione degli studi (sebbene il corso di laurea, ora detta magistrale, sia passato da quattro a cinque anni); che le conoscenze si sono di-versificate, trasmigrando dall’accademia verso altre sedi professionali che si sono attribuite, o viste attribuire, il compito della forma-zione permanente; che le sentenze, soprattutto di legittimità, hanno preso il sopravvento sulle altre forme di conoscenza e creazione del diritto (la Cassazione afferma apertamente di trovarsi impegnata a partecipare «alla fase di formazione e formulazione del diritto, più e oltre che alla fase di applicazione del diritto al caso concreto»); che ha preso piede una cultura pratica del “successo” fondata su un metodo casistico che non apparteneva al nostro modo istituzionale di studiare il diritto; che, quindi, il percorso di chi aspira alla magistratura è diventato più lungo e soprattutto più costoso.
Il diploma di laurea garantisce una semplice conoscenza di base.
La conoscenza necessaria per mettere a frutto i risultati degli studi presuppone invece altri studi, diversamente orientati, riservati a chi può aspettare e se lo può permettere.
Non si tratta di studi finalizzati ad accrescere la propria cultura giuridica o umanistica, che non interessa; si tratta di studi finalizzati a “vincere”, ad acquisire la tecnica argomentativa e le conoscenze (soprattutto di giurisprudenza pratica) necessarie per il superamento delle prove scritte. Ora, il concorso lo si vince sull’ultima sentenza delle sezioni unite, del Consiglio di Stato; e i cenni di cultura generale non sono richiesti e tantomeno apprezzati.
Anche quest’anno, nel semestre che volge al termine, non sono riuscito a completare il programma, come avrei voluto; all’esecuzione forzata (libro III) e ai procedimenti speciali (libro IV) sono stato co-stretto a riservare semplici cenni. Non c’è il tempo, bisogna correre, si rischia di restare indietro: gli esami sono poco meno di quaranta (21, ai tempi miei). Cerco di compensare consigliando agli studenti letture integrative; ma non sono contenti, perché sanno che a un certo numero di crediti formativi deve corrispondere un certo numero di pagine, e fare letture per ampliare la cultura generale è quasi una perdita di tempo. Lo portiamo all’esame? è la domanda che chiude il discorso, e che potrebbe tradursi con un Serve per vincere? No, non sono sicuro che serve per vincere.
È questa conoscenza per la vittoria, il problema più urgente che dobbiamo risolvere. Ma che è la punta emersa di molti altri problemi, di formazione e diffusione della cultura giuridica, la cui soluzione è tutt’altro che facile.
Tempo possibile e tempo impossibile