di Elvira Fratto
Quando Edipo giunse alle porte di Tebe, la Sfinge, il mostro che assediava la città, gli sottopose un indovinello cui nessuno, fino a quel momento, era mai riuscito a dare una soluzione. “Chi è” gli chiese la Sfinge, “colui che, pur avendo una sola voce, all’alba cammina a quattro zampe, a mezzogiorno a due e al tramonto a tre?”.
Edipo comprese la natura metaforica del quesito, che nulla aveva a che fare con la conformazione fisica di alcuno degli animali sulla Terra: così, rispose che quella creatura era l’uomo poiché gattonava all’alba della propria vita, si reggeva su due piedi nel “mezzo del cammino” e si appoggiava ad un bastone al momento della vecchiaia – il tramonto del percorso.
Prima che Edipo giungesse alle porte di Tebe, quindi, la Sfinge aveva scandito il tempo a suo modo, definendolo, di fatto, come un evento subìto dall’uomo, un evento che lo piega inesorabilmente nelle diverse fasi della sua vita. Nella dimensione della Sfinge, insomma, l’uomo risolve l’enigma del tempo, ma non per questo trionfa su di esso.
Nel corso delle tragedie che lo vedono protagonista, Edipo affronta il tempo di petto: combatte il re di Tebe, suo padre Laio, su di un ponte, per poterlo attraversare prima di lui, giungendo alle porte della città in breve tempo e divenendone il sovrano, sposando la regina vedova Giocasta, che non sapeva essere sua madre. Edipo è il ritratto dell’uomo che passa dallo svelare il tempo a scoprirsi svelato da esso: solo cavandosi gli occhi con i fermagli della veste di Giocasta, sua moglie e madre, riuscirà a giovarsi, nella sua cecità, dello scorrere del tempo, smettendo di controllarlo e andando incontro alla propria catarsi.
Edipo insegna ai posteri che combattere contro il tempo è deleterio, che forzarlo e aggredirlo è controproducente: essere impulsivi è una volgarizzazione dell’essere coraggiosi, un’iperbole dell’audacia. Nonostante ciò, Edipo riesce a fare tesoro anche di quella che è la dote curativa del tempo, assecondandolo senza pretendere di dominarlo ed è qui che si perfeziona, invero, il rapporto tra tempo e uomo: l’uomo ha bisogno del tempo per cambiare, peggiorare, migliorare, edificare, edificarsi; il tempo ha bisogno dell’uomo per acquisire senso, consistenza, sazietà.
Siamo tutti allievi infelici del tempo smorzato: un paio di mesi addietro io avrei desiderato la realizzazione di un progetto sul quale avevo investito molto di ciò che ho dentro, lo avrei desiderato più di ogni altra cosa; il tempo, però, mi è stato avverso. Con la sua tipica ruvidezza, spesso antitetica alla consistenza soffice dei sogni, mi ha comunicato che non era il mio momento, che coi mezzi che possedevo avrei potuto – dovuto! - far qualcosa d’altro, avrei dovuto far di più prima di realizzare quel progetto.
Così, come la battigia che si fa quieto ristoro per il mare, ho accolto – seppur a fatica - lo scorrere del tempo, comprendendo che esso non ci dona ciò che vogliamo, ma ciò di cui abbiamo bisogno e comprendendo, contemporaneamente, che di quel tempo creduto inutile e sprecato potevo comunque usufruire senza che marcisse come un frutto, divenendo sterile, poiché non sfruttare il tempo che si ha a disposizione è il solo modo al mondo di sprecarlo.
La sensazione di possedere il tempo, di conoscerne i segreti, sconfiggere le Sfingi della vita, per ritrovarsi poi ciechi di fronte a ciò che il tempo svela, a nostro danno e inesorabilmente, ci rivela che siamo solo strumenti – e non direttori – dell’orchestra del Tempo: siamo tutti Edipo, possessori di tutto, proprietari di niente; qualche volta personaggi, raramente protagonisti; sempre lancette, mai orologi.
Tempo possibile e tempo impossibile