Sant’Ignazio insegnava ai monaci dell’ordine da lui creato - lui che era stato soldato e conosceva il male e la paura, ma anche il coraggio e gli slanci dell’anima - che alle volte proprio l’anima cade in un sonno, in una sorta di apatia, di cono d’ombra, che egli chiamava “la notte oscura”. Un limbo in cui ci si sente sospesi, indifferenti, in una parola “aridi”. Un limbo che, paradossalmente, tocca tanto più spesso a chi è abituato ai grandi slanci, alla grande fede, alla grande carità, alla visione grande delle cose del mondo. Uno stato profondo, quasi un profondo respiro, necessario – a tanti grandi santi – per penetrare la profondità della propria anima e della propria fede. La necessità di conoscere il buio, per conoscere veramente, intimamente, la Luce. Un labirinto intricato dal quale non si sa come uscire e che impone una ricerca dura, aspra, una sorta di montagna da scalare, prima di arrivare alla vetta.
A chi non è capitato di porsi quotidianamente di fronte alla domanda di come comportarsi rispetto ad una data situazione scomoda? E non parliamo delle grandi scelte, delle situazioni pericolose, delle pesanti responsabilità. Parliamo delle piccole cose, che spesso ci impongono di esprimere un nostro pensiero, di affermare ciò che dentro di noi è giusto, ma che ci mette in cattiva luce, o ci espone alla malevolenza altrui. E la domanda che spesso poniamo a noi stessi è: “chi me lo fa fare?”. Già, chi me lo fa fare! Chi me lo fa fare di assumere una responsabilità che non mi porta alcun beneficio, alcuna utilità. È così che tante volte ognuno di noi sostituisce la categoria della giustizia a quella dell’utilità. Dell’umanità alla funzione. Agiamo in funzione di qualcosa, ma così noi stessi diventiamo funzione di qualcosa. Essere funzionali è tranquillizzante, pacificante, ma, chissà perché, ci lascia una sorta di inquietudine, una sorta di retrogusto amaro.
Nel mio lavoro in particolare il rischio è quello di fare della toga il dato funzionale del nostro essere, di sostituire la toga a noi stessi. Di sostituire l’utilità, o in modo politicamente corretto “l’opportunità”, a quella giustizia dentro di noi che, soprattutto per noi, dovrebbe essere la spinta delle nostre azioni, dentro e fuori dai palazzi di giustizia. Dico questo perché è il riflesso della mia quotidianità, ma – alla fin fine – è un affare che riguarda tutti gli esseri umani, qualsiasi mestiere facciano.
Tempo possibile e tempo impossibile