di Stefania Amodeo
Un giorno, tanti anni fa, mi invitarono in una scuola elementare, per trattare il tema della legalità. Bambini di quarta e di quinta erano stati prescelti dagli insegnanti per partecipare attivamente all’incontro, con domande e continua interazione.
Già mi era accaduto altre volte di trovarmi a parlare, in consessi scolastici, dell’essere magistrato, della giustizia, dei meccanismi processuali.
Era stata sempre un’esperienza entusiasmante, che lasciava ogni volta segni importanti, più in me, forse, che negli studenti, per quel senso di appagamento che ci prende quando ci rendiamo conto di essere riusciti a trasmettere agli altri un po’ di noi, del nostro mondo, degli strani ingranaggi del processo, ignoti ai più e soprattutto ai giovanissimi, che ci vedono in una torre eburnea, quasi arbitri intoccabili delle umane vicende.
Ma in quell’occasione, nel rivolgermi a bambini - a cui luccicavano gli occhi per la curiosità, a cui la mia presenza tra loro suscitava forte emozione ed immensa curiosità - la mia gioia per l’aver aderito all’invito fu particolarmente intensa. Osservare i loro sguardi, percepire la concentrazione di ciascuno di loro, toccare la loro attenzione, ascoltare quanto mi chiedevano sovrapponendosi gli uni agli altri spasmodicamente (in ciò a stento disciplinati dalle imbarazzate, ma contente, maestre), tutto questo determinò in me una sensazione di pienezza, quella che ci coglie nei momenti in cui ci doniamo agli altri e comprendiamo che siamo utili, che serviamo a qualcosa ed a qualcuno.
Ecco, quell’esperienza mi è restata dentro più di ogni altra di analogo contenuto.
Mi è restata dentro perché mi ha consentito in maniera semplice, ma intensa e diretta, di comprendere davvero quanto noi magistrati rappresentiamo nell’immaginario collettivo, a partire da creature di pochi anni che hanno dentro, innato, il senso della giustizia, grazie, proprio, ai quei loro pochi anni, privi delle contaminazioni che il trascorrere del tempo inevitabilmente porta con sé.
E le creature di pochi anni hanno forte, accanto al senso della giustizia, il senso dell’importanza della figura del giudice, da loro idealizzata, percepita come materializzazione di un concetto inafferrabile ma considerato come sommo.
Ritorno spesso con il pensiero a quel giorno. E per quei bambini, per i nostri bambini, per i nostri figli e per i figli dei nostri figli io vorrei essere, ogni giorno, migliore di quanto sia stata il giorno prima, vorrei essere gentile, disponibile, attenta, nei riguardi dell’utenza, degli avvocati, ogni giorno più di quanto lo sia stata il precedente.
A volte riesco, a volte meno, ma la mia tensione è a quello. Per non deludere le aspettative di chi mi guarda, di chi attende supinamente da me la decisione sulla propria vita, affidandosi -dovendo, necessariamente e senza possibilità di scelta, affidarsi- ad un suo simile, che si trova a giudicarlo in terra senza essere diverso da lui ma solo per aver vinto un pubblico concorso, faticosamente, sì, con dispendio di energie fisiche ed intellettuali che segnano tutti coloro che quel duro concorso hanno superato, ma che non ci ergono al di sopra degli altri, non tolgono l’essenza, il nostro essere uomini come tutti gli altri.
Per non deludere quei bambini che mi guardavano e mi ascoltavano incantati.
Per contribuire, nel mio piccolo quotidiano, ad un futuro dignitoso per le nuove generazioni, a cui stiamo rischiando di lasciare in eredità macerie. Anche in questo terremoto che sta scuotendo tutti noi, che sta facendo vacillare negli altri la fiducia nella magistratura, credo che ci sia tanto di fertile da coltivare. “Gli altri’’ ci guardano, ci osservano, attendono, vogliono e devono credere in chi amministra giustizia.
Io cerco di non dimenticare, mai, di essere osservata, di essere ‘’attesa’’ fiduciosamente da chi ha posto la sua domanda di giustizia, di essere stata investita di un compito che, fuor di retorica, trascende la mia individualità. E, con questo spirito, continuo.
Tempo possibile e tempo impossibile