Diversi sono i temi, gli spunti, gli intrecci che la lettura di “Non c’ero mai stato”, l’ultimo romanzo vergato da Vladimiro Bottone (Neri Pozza, 2020, p. 399), pone all’attenzione del lettore e anche dello scrittore. La storia è ambientata in una Napoli contemporanea, ma anche segnata da una specie di a-temporalità asfissiante: quella specie di cortina pesante che aggrava i movimenti dei personaggi di Bottone, che si tratti del Real Albergo dei Poveri nel XIX secolo o di Corso Vittorio Emanuele negli anni duemila. Vi si fronteggiano stavolta Ernesto Aloja, editor ormai ritiratosi dall’agone editoriale, vissuto molti anni al Nord, e ora rientrato nella città natale, e una giovane, tormentata, sensuale aspirante scrittrice, Lena Di Nardo.
A partire Dall’invio del manoscritto di lei, un po’ sfrontato, un po’ inconsapevole, si instaura tra i due una relazione complessa che si muove su più livelli, da quello della scrittura, a quello dell’attrazione fisica, a quello dello scambio (impossibile) tra le rispettive visioni del mondo. Il romanzo nel romanzo che Bottone mirabilmente intesse – quello, cioè, che vanno scrivendo Ernesto e Lena - ci restituisce la misteriosa, inquietante commistione tra Vita e Invenzione, Romanzo e Destino, processi creativi e passaggi della prassi quotidiana. Già solo questo rende la lettura del romanzo non solo avvincente, ma una vera e propria dissezione anatomica su cui lo scrittore che sia già tale, l’aspirante scrittore, l’editor possono stare a meditare a lungo e, ne sono certo, proficuamente.
Vi è però un piano, specificamente esistenziale, che si fa linguistico e narrativo, che vorrei meglio focalizzare ora: il rapporto tra le generazioni. Lena potrebbe essere figlia del nostro protagonista, viene dalla provincia di Napoli, fa delle traduzioni per tirare a campare, insomma si arrangia, è una precaria, ha scarsi mezzi. Osserva con un’aria nervosa e vorace il bell’appartamento borghese e panoramico dove lavora al romanzo col suo editor. La sua volontà di scrittura si misura con la fatica di una vita incerta, con gli smarrimenti dell’età giunta ai 30 anni in cui il senso di responsabilità indica che bisogna pure cogliere qualche risultato tangibile di vita normale.
Lena è trasbordante nelle sue scelte tanto narrative quanto linguistiche. La macera una inquietudine totale che il suo editor/maestro/amante, finalmente da lei totalmente dipendente, non riuscirà a capire, se non in parte, se non troppo tardi, se non a costo dell’irrimediabilità del distacco e della fine. Noi seguiamo il punto di vista di lui, di una generazione che ha vissuto stagioni difficili eppure foriere di certe ricompense, di certi riconoscimenti, di certe partecipazioni gratificanti alla vita intellettuale e letteraria. Una generazione che, in fin dei conti, pare restare indifferente alla spasmodica quotidiana fatica delle Lene di Nardo.
Ecco, io questa spaventosa, a tratti atroce distonia comunicativa, questo iato di percezioni e parole – l’immediatezza forse grezza ma intensa di Lena, un certo snobismo annoiato in Ernesto - li ho sentiti tutti, leggendo, e mi hanno profondamente disturbato e amareggiato. Non ho 30 anni come Lena, ma a 41 sono collocabile in una generazione più vicina alla sua che a quella dell’io narrante: l’ho detestato con tutte le mie forze, mi ha esasperato come certe creature egoiste, intollerabilmente egoiste dei romanzi di Bellow. Ma pure lui si porta dietro la sua Macchia. E il peso di Napoli.
Tempo possibile e tempo impossibile