di Bruno Capponi
Una delle letture più tristi del liceo è stata per me
Storia di una capinera di Giovanni Verga. Allora mi sembrò il racconto di uno scrittore pessimista e reazionario; ora capisco che i protagonisti (i messaggi) del romanzo erano almeno due: non solo Maria (la capinera), ma anche Antonio detto Nino. Il quale, innamorato di Maria, povera orfana, finisce per sposare la sorellastra Giuditta, assistendo impassibile al ritorno della prima nel convento ove, scampato di poco il ricovero nella cella dei folli, la capinera morirà tenendo sulle lab-bra alcuni petali della rosa che Nino aveva lasciato sul davanzale della finestra della sua prigione.
Ovviamente la denunzia è quella delle vocazioni forzate, frequenti al tempo; ma, forse, si è inteso denunciare anche chi assiste all’atto di forza senza opporsi. Nino non è meno protagonista di Maria, per-ché accetta senza combattere una violenza sociale che lo priva della donna amata (ripiegando sulla sorellastra). Nino è parte di una maggioranza, e paga un prezzo. Verga ci dice: senza un certo orienta-mento, senza il consenso della maggioranza, taluni delitti non avrebbero modo di compiersi.
È quanto capita tuttora in molti ambienti. La rappresentanza, che abbiamo assunto a metodo democratico, favorisce anzi fenomeni in cui minoranze, sembrando o proponendosi quali espressioni della maggioranza, finiscono per imporre la loro volontà che non riflette quella della maggioranza vera. Che spesso è inespressa, o forse non esiste proprio. Mi sembra che il discorso riguardi proprio la magistratura, che sta ora vivendo il momento di più bassa considerazione sociale (ingiusta riguardo alla stragrande maggioranza dei magistrati) in conseguenza delle malefatte di una minoranza che, manipolando il consenso, ha voluto disonorare la toga.
Tempo possibile e tempo impossibile