“…il movimento per liberarsi da questa trappola dovrebbe essere duplice. Bisognerebbe amare la vittima senza bisogno di sapere nulla di lei. Bisognerebbe sapere molto del carnefice per capire che la distanza che ci separa da lui è minore di quanto crediamo. Questo secondo movimento si impara, è frutto di una educazione. Il primo è assai più misterioso.” Nicola Lagioia, La città dei vivi, Einaudi, 2020
La nebbia nasconde, e sbianca tutto un po’. Precipita i viali e gli edifici in un indistinto lattiginoso, che porta fuori strada, persino quando stai ripercorrendo ancora una volta la stessa strada, dopo infinite altre. Mi si presenta così, sovente, il tragitto che, attraverso un’area di capannoni industriali, porta all’ingresso della Casa Circondariale di cui mi occupo. Parcheggio la macchina, raccolgo le carte che mi servono, calpesto rumorosamente l’erba anemica che prova a crescere nel piazzale, irrigidita dalla gelata mattutina. Ed entro. Scambio saluti e qualche commento sul tempo inclemente con gli agenti di polizia penitenziaria. In fondo al cortile il Cappellano, con il saio marrone e i calzettoni pesanti sugli immancabili sandali, scherza con un detenuto ammesso al lavoro nell’intercinta. Un’educatrice sale le scale in fretta verso gli uffici.
Nel nostro paese l’attenzione alle vicende penali è in genere molto alta. I processi sono spesso seguiti con interesse, e una buona dose di morbosità, dalle comunità e dai media. Tutto si spegne, in un certo senso, alle porte del carcere. Quando la condanna è irrogata, sembra che la parola fine si possa pronunciare. Il condannato inizia l’espiazione della sua pena dietro le sbarre, e la società tira il fatidico sospiro di sollievo, allontanando da sé ogni riflessione su cosa sia effettivamente la detenzione.
Nell’art. 27 comma 3 della nostra Costituzione, come è noto frutto dell’incredibile lungimiranza dei padri costituenti, che ben conoscevano le galere fasciste, sono contenute le inderogabili linee guida per l’esecuzione delle pene: mai possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità (e dunque occorre preservare i diritti fondamentali di chi sia privato della libertà personale) e sempre debbono tendere verso la rieducazione (oggi diciamo: il reinserimento sociale) delle persone condannate. Dal riferimento plurale alle pene deduciamo che il carcere non è l’unico modo di espiarle. Nel nostro ordinamento, quindi, sono previste da molti decenni le misure alternative, che si eseguono con grande profitto nei territori, accompagnando le persone mediante il contributo essenziale dei servizi sociali. Il carcere però è ancora una necessità, quando la pericolosità sociale di un condannato è tale da non poter essere altrimenti contenuta.
La reclusione, dunque, non può mai essere, nell’approccio costituzionale, soltanto tempo sottratto alla libertà, a prescindere dalle modalità di impiego. Non può limitarsi a contenere per un tempo dato, ma deve consentire una possibile evoluzione alla persona condannata, mediante un’offerta, il più possibile individualizzata, di opportunità di crescita personale, dalla scuola alla formazione professionale, alla riflessione critica sul reato e sulle sue conseguenze negative, per sé e per la società. Di recente la Corte Costituzionale ha ribadito, con parole che illuminano i difficili percorsi che si fanno in carcere, che “la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento.” (cfr. Corte Cost. sent. 149/2018).
A leggersi così, sembrerebbe che il tempo non basti mai. C’è tanto da fare. E invece, spesso, dentro le mura manca molto di quel che dovrebbe esserci, a cominciare dagli educatori, dagli psicologici e dai medici, e sovrabbondano le persone recluse, stipate ben oltre i limiti minimi dettati dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’Uomo (3 mq procapite).
Tutto questo, però, non sembra essere un tema che affascina l’opinione pubblica. Nella bulimia di penalità, che si riscontra, la chiave delle celle serve a serrarle la prima volta, per poi essere, come si dice, gettata via. E questo anche quando, invece, le pene sono soltanto temporanee, e conoscere in che modo si stia lavorando per restituire alla società persone migliori, e maggiormente in grado di offrire un contributo positivo alla stessa, sarebbe fondamentale per capire se l’intero sistema penale che ha il suo cuore nel processo, sia in grado di raggiungere i risultati che si prefigge. D’altra parte è evidente che un condannato con cui si è lavorato proficuamente, consentendogli di leggere la realtà con strumenti per affrontarla diversi e migliori rispetto a quelli di cui disponeva quando ha offeso la società con il delinquere, è una persona che costituisce un minor rischio per la sicurezza della collettività, e dunque per ciascuno di noi. Si dice spesso che gli Italiani non hanno mai digerito il portato dell’art. 27 co. 3 della Costituzione. Mi pare ingeneroso generalizzare, perché sono molti, in realtà, i segnali di un impegno concreto di alcuni cittadini a sostegno del lavoro che si svolge in carcere. Il volontariato non manca, neppure in questo settore così complesso. Esistono associazioni che sostengono iniziative in favore delle persone detenute. C’è un dibattito illuminato in cui la dottrina penalistica e l’avvocatura fanno sentire la loro voce, consci che dall’umanità delle nostre carceri si misura la temperatura democratica della nostra società. Ci sono le istituzioni, naturalmente, e tra queste la magistratura di sorveglianza cui, progressivamente, si sono aggiunte l’autorità Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale e i Garanti territoriali. C’è però qualcosa in più, che mi pare manchi, almeno nella gran parte dell’opinione pubblica. E, nonostante il tanto parlare di riforme, mai poi concretizzatesi, che riportino l’intero sistema penitenziario in un solco di maggior aderenza all’insegnamento costituzionale, a me pare che la sfida di interessare i cittadini ai destini degli autori dei reati resti ardua, pur non potendosi smettere di tentarla. Il carcere, poi, attraversa in questi tempi un’emergenza nell’emergenza. Si è chiuso su se stesso, rendendo più difficile quell’osmosi tra dentro e fuori, tra territori e detenzione, che è così importante per costruire percorsi di reinserimento. Si pensi alla scuola, sospesa senza che la didattica a distanza possa trovare modalità di attuazione efficaci, come si sta tendando di fare, non senza difficoltà, all’esterno. Ha dovuto farlo, a causa dell’emergenza epidemica, ma questo ha contribuito, pur senza che nessuno lo volesse, a renderlo ancor di più un contenitore di persone, per altro non esenti, a causa del sovraffollamento, dal rischio di dover permanere in spazi privi del distanziamento sociale che servirebbe a preservarsi dal virus, in cui nulla di rieducativo può accadere, salvo attendere l’azione del tempo, che può lenire o aiutare a sanare, ma può anche lavorare in senso opposto, approfondendo ferite difficili da rimarginare e scavando solchi troppo profondi da valicare.
Tempo possibile e tempo impossibile