di Elettra Papaccio
“Finché ho ancora la vita, mi oppongo alla decisione altrui, a che i miei polmoni non possano più respirare aria al mattino, quando tutto sembra sopito in un grigio estivo, che apre squarci d’inverno e nostalgia sul profondo del mare. Se non posso vivere altre vite, non togliermi la compagnia della farfalla che si finge inerme e mi guarda dal balcone della sua vita.
Non togliermi il sole, di cui sono avidi gli occhi, fino a bruciarsi.
Sarà una voce al vento, la mia, ma se potete giudicarmi, non avete il diritto di uccidermi.
Sarà ripetitivo, vano o parola lanciata nell’indifferenza tra i suoni banali del vostro giorno che prosegue.
Siete nel traffico, siete soli nel profondo del vostro non conoscere chi vi abita dentro.
Ma finché vivo mi oppongo a che altri siano padroni del mio corpo.
Come possono violare la legge di chi nasce e chi muore, tra la brezza che smuove i rami e fa girare le foglie tra i miei pensieri?
Se ho un diritto, il mio primo diritto è oppormi alle decisioni sul mio corpo: non potere violare lo spirito vitale che è in me, lo spazio più intimo che neanche io conosco.
Non potete togliermi ciò che non mi avete dato, andando oltre misura della legge del vostro ordine.
Non vi appartiene la mia dimensione dell’essere- il mio corpo non è solo respiro- è molto più.
Come potete sapere quello che ho dentro e come pretendete proprietà sulla complessa chimica che si trascina nel mio cervello.
Finché son vivo e finché son morto il mio corpo vi ricorderà che preesiste al vostro ordine di esecuzione.
Tempo possibile e tempo impossibile