di Luigi Sebastiani
La bellezza, realizzo, è molto spesso una questione di postura. Alla prima interrogazione un po' ingessata:
Luigi, cos'è per te la bellezza?, il mio pensiero stranito si è subito rivolto a quelle punte apicali che definiscono la scala, stabilendo vertici, piedi e gradi mediani – come le Passioni di Bach o gli ultimi, terminali Quartetti di Beethoven; le pelli vivide e consunte dei santi di Ribera o certi marmi palipitanti di Bernini che hanno il dono del movimento nella stasi, come se un Dio di carne e di sangue avesse insufflato loro la vita; le ottave di Tasso o certi distici luminosissimi di Sandro Penna, limpidi come il cristallo e al contempo semplici come acqua di fonte. Quella bellezza insomma che irretisce, sì, ma senza lasciarsi toccare o comprendere. Quella bellezza che io,
un po' scimunito ma greggio, subisco quasi passivamente in uno stato di shock o, se vogliamo, di casta preghiera. E dalla quale mi riscuoto ogni volta senza una chiara coscienza delle sue ragioni che non siano quelle squisitamente formali, e anzi con un senso accresciuto del suo stesso mistero.
Ma vi è un'altra bellezza, che chi è solito abbeverarsi alla prima guarda con sospetto se non addirittura con autentica riprovazione. Si tratta forse di un sottobosco della bellezza, o di una bellezza seconda che invece di levarsi al di là del mondo tresca e commercia con lui, ci fa a cazzotti o ci va pazziando a braccetto in mezzo alle sue strade.
Tempo possibile e tempo impossibile