di Gabriele Esposito
Ascolto per l'ennesima volta quest'anno la Canzona di ringraziamento offerta alla divinità da un guarito, in modo lidico, terzo movimento di uno degli ultimi quartetti d'archi di Beethoven: l'opera 132, da lui composta due anni prima della morte.
La mia personale e autogenerata playlist su Spotify segnala il brano al terzo posto tra i più gettonati da me stesso negli ultimi dodici mesi, in un podio che lo raggruppa al Concerto per violino no. 1 di Max Bruch nell'interpretazione Mutter/Karajan, ascoltato ossessivamente almeno un centinaio di volte nel corso del 2021, e al Concerto per pianoforte di Robert Schumann suonato da Richter, colonna sonora perfetta di pensieri perturbanti tipici di questo periodo storico bizzarro.
Eppure a sconvolgermi nella maniera più totale, in questi ultimi mesi, è solo la Canzona di Beethoven, tanto da decidermi a dedicarle questo breve scritto. Non sono né musicologo né musicista (nonostante, in alcune giornate sì, sia in grado di interpretare in maniera decente al pianoforte il Preludio in mi minore di Chopin e stia provando in questi giorni a rendere giustizia alla Gymnopedie no. 2 di Satie) ma sono capace di autoanalisi e, per meglio fissare le mie conclusioni, ho deciso di scrivere le ragioni di questo profondo perturbamento.
Scritta dal Maestro come ringraziamento per essere guarito da una grave malattia intestinale, il brano alterna passaggi gravi, lenti e monotoni a improvvisi sprizzi di inaudita gioia, momenti musicali di rara se non addirittura unica bellezza (da eseguire, secondo le indicazioni scritte da Beethoven sullo spartito, sentendo nuova forza, quindi uscendo dall'infermità).
Eppure, i passaggi nel brano rimangono alternati: nel movimento non c'è la permanenza dei momenti gioiosi – che nella mia interpretazione preferita, quella del Talich Quartet per La Dolce Volta, 1979, iniziano dopo circa quattro minuti – questi scompaiono e riappaiono più volte, fino a una conclusione piuttosto lenta e malinconica dell'opera.
Stati di salute e malattia non definitivi, quindi? Un declino inesorabile intervallato da rara felicità?
Tempo possibile e tempo impossibile